Siena nel Decameron

Siena BANDO3 copia Siena, dopo Firenze , è una delle città toscane più ricordate nel Decameron e le novelle qui ambientate sono la VII,3; VII,10; VIII,8; IX,4; X,2; X,7.

Nella VII,3 narrata da Elissa, viene subito data indicazione dei luoghi dove si svolgono i fatti, e subito si scopre quella animosità verso la città rivale, Firenze, che insisterà in varie altre pagine del Decameron. La novella narra che “in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia, il quale ebbe nome Rinaldo” che si era innamorato di una sua vicina, molto bella, moglie di un uomo ricco ed in attesa di un figlio, e non trovando altro modo per avvicinarsi ad essa decise di divenire suo compare e dopo esser divenuto Frate “cominciò a dilettarsi d’apparere e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato, e a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate, e a cantare, e tutto pieno d’altre cose a queste simili”.

Boccaccio sottolinea i bei vestiti e tessuti “non di tintillani né d’altri panni gentili, ma di lana grossa fatte e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero”, e fa un osservazione sui costumi dei frati che “non si vergognano d’apparir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi ne’vestimenti e in tutte le cose loro; e non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti procedono”.

Nel descrivere le celle dei frati sottolinea che erano ricche di vasetti di unguenti a base di miele, di scatole piene di confetti e pasticcini, di piccole caraffe con essenze e con oli, e fiaschi di malvasia e di vino greco, ed altri vini preziosissimi, tanto che non sembrano celle di frati ma botteghe di venditori di spezie e d’unguenti: “le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono più tosto a’ riguardanti”.

Nel XIV secolo a Siena vi erano circa quasi cinquanta botteghe di speziali (Archivio di Stato di Siena, fondo Arti 132), ed erano diffuse anche in altre città. Gli speziali vendevano non solo medicine, ma anche erbe e spezie necessarie per la preparazione dei medicinali, spezie usate per scopi alimentari, dolci ricchi di spezie, profumi ed essenze, colori per tintori e pittori, cera per candele, sapone, spago, carta per scrivere e inchiostro. Dalla vendita di tutte queste merci derivava grande prosperità economica. Lo speziale era una sorta di farmacista, che conosceva prodotti e potenzialità ai fini terapeutici e il suo lavoro era considerato uno dei più redditizi. Oltre al miele e confetti, si parla di unguenti probabilmente alludendo a medicinali che di solito venivano fatti nei monasteri. Inoltre vi è il riferimento ai vini: malvasia, vin greco e altri vini preziosissimi. Viene inoltre fatta un osservazione su caratteri edilizi quando, con varie sollecitazioni, il frate Rinaldo dopo aver mandato la fante “nel palco de’ colombi”(ossia nella colombaia), si ritirò con madonna Agnese nella camera e dopo essersi chiusi dentro “sopra un lettuccio da sedere che in quella era, s’incominciarono a trastullare”. (Nelle case toscane vi era la parte superiore dove si tenevano i colombi, ossia la colombaia, con una forma tozza e non molto alta, mentre nella parte inferiore vi erano i magazzini.)

Rinaldo si era rinchiuso con Agnese nella colombaia e per non farsi scoprire dal marito della donna. Nell’uscire fece finta di avergli salvato il figlio da una malattia e gli chiese, come ringraziamento, di porre una statua di cera “dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, non a quello di Melano”: il riferimento è ad elementi architettonici importanti della città di Siena, infatti ad Ambrogio Sansedoni da Siena, domenicano, nel 1288 fu dedicata (dal Comune di Siena) una cappella nel Palazzo Sansedoni.

Altra novella ambientata a Siena è la VII,10, narrata da Dioneo. In questa novella vi è il riferimento a Porta Salaia: “Furono adunque in Siena due giovani popolari, de’ quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia”.

La città di Siena, insieme a Firenze, rappresenta il più vitale centro artistico toscano della fine del XIII secolo e della prima metà del XIV secolo e vicino alle porte, punti di riferimento nella città, aperte durante il giorno e chiuse la notte, vengono ambientate alcune novelle. Porta Salaria, che collega con l’antica via Salaria, si trova a metà dell’attuale via di FonteBranda: oggi resta solo la parte bassa della porta, detto Arco di Porta Salaria. Nel Trecento Siena aveva assunto un ruolo di primo piano nel contesto europeo, soprattutto per il mercato dei capitali, e a ciò aveva contribuito la posizione lungo la via Francigena e la capacità dei suoi abitanti. I borghi, come Camollia, San Donato, San Pietro ad Ovile, inizialmente erano recintati con palizzate di legno simili a quelle che si possono vedere nell’affresco di Simone Martini, nella Sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena, rappresentante Guidoriccio da Fogliano, e nell’opera di Duccio di Buoninsegna. Siena dimostra di essere una città formata da una società ricca e colta, ove si investono considerevoli cifre in architetture ed opere d’arte. Si era verificata un’elevata crescita demografica che si traduceva anche in un ampliamento del circuito urbano. La popolazione arrivò a circa cinquantamila abitanti ma con la peste del 1348, l’andamento demografico subì un drastico calo scendendo fino a quindicimila abitanti.

Tingoccio e Meuccio andavano in chiesa, seguivano le prediche, e più volte avevano sentito parlare della gloria e dell’infelicità che i morti trovavano nell’altro mondo e seconda dei meriti in vita. Così si promisero che chi di loro fosse morto per primo sarebbe ritornato da quello che restava vivo per raccontargli cosa succedeva veramente nell’aldilà. Dopo aver fatto questa promessa, Tingoccio divenne compare di Ambrogio Anselmi, che apparteneva ad una nota famiglia senese, “che stava in Camporeggi” , ed aveva avuto un figlio da monna Mita. Camporeggi era una nota contrada senese (dove si trova la Chiesa San Domenico sopra il poggio di Camporegio che domina il piano di Fontebranda) che si trova vicino alla via Francigena. La posizione e i nomi dei protagonisti contribuiva a infondere maggiore concretezza alla scena. I due giovani andarono a far visita alla comare che era una bellissima donna: entrambi se ne innamorarono (compreso Tingoccio nonostante la parentela), ma non dissero niente. Come nella novella VII,3 viene citata la relazione di “comparatico”, essere comari che creava rapporti di parentela religiosi (come succede anche oggi). Entrambi riuscirono a conquistare la donna, e avvenne che un giorno “trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò”[12]: vengono paragonate fatiche sessuali con quelle nei campi (come ritroviamo anche nelle novelle II,10,32; III,1,18). Ma dopo tante fatiche Tingoccio morì ed il terzo giorno, come promesso, si recò durante la notte nella camera di Meuccio e lo chiamò. Tingoccio gli disse che era ritornato dall’aldilà per raccontargli cosa succedeva nell’altro mondo: l’amico gli chiese se “di qua per lui a fare alcuna cosa”[13] (se aveva bisogno di qualcosa dal mondo terreno) e Tingoccio gli rispose “che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là”[14].

Si nota l’importanza della religione nel pensare comune e l’uso della venerazione dei morti con messe ed elemosine (come oggi). Quando Meuccio gli chiese che pena gli era stata data perché era andato con la comare Tingoccio gli rispose che “li non si non si tiene ragione alcuna delle comari”. E così Meuccio avendo udito ciò “cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio” .

Sempre in Siena viene ambientata l’ottava novella della VIII giornata, narrata da Fiammetta, che ha come protagonisti i due amici, Spinelloccio Tavena e Zeppa di Mino, che erano vicini di casa e abitavano nella contrada di Camollia, dove si trova l’omonima porta, e cominicia così: “Dovete adunque sapere che in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de’ quali l’uno ebbe nome Spinelloccio Tavena e l’altro ebbe nome Zeppa di Mino, e amenduni eran vicini a casa in Cammollia”[16].

Porta Camollia fu la porta senese maggiormente difesa, perché chiudeva la Via Cassia in direzione di Firenze.

Del sistema difensivo rimangono l’Antiporto, fuori le mura, e i resti del Fortino delle Donne, costruito su un disegno di Baldassare Peruzzi all’inizio del Cinquecento. Dopo la conquista fiorentina di Siena, Porta Camollia fu modificata nella forma attuale. 

Spinelloccio Tavena e Zeppa di Mino “amenduni eran vicini a casa in Cammollia”[17], ricordano i due amici, Tingoccio e Meuccio, dell’altra novella senese (VII,10). In queste novelle risalta l’amicizia fra i giovani che abitavano nella stessa zona, quasi a sottolineare il ruolo delle contrade nei rapporti sociali. La novella narra dei due amici Spinelloccio e Zeppa che “sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono, così s’amavano, o più, come se stati fosser fratelli, e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella”[18]. Un giorno Spinelloccio arrivò in casa dell’amico, e si ritirò in camera con la moglie (dell’amico): “Spinelloccio prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v’era, abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui”.

Attraverso questa frase emerge un’osservazione sulle strutture edilizie: le case erano a due piani, con delle scale interne, e nel piano superiore vi erano sale e camere.

Il Zeppa, che all’insaputa dei due era a casa, vedendoli e sentendoli, decise di ripagarli con la stessa moneta ossia “pan per focaccia”. Dopo che Spinelloccio andò via, Zeppa andò nella camera dove stava la moglie e le fece confessare il tradimento e le disse che se voleva essere perdonata doveva dire a Spinelloccio di recarsi da lei l’indomani mattina “in su l’ora della terza”, ossia verso le nove, e quando sarà in casa lo dovrà rinchiudere dentro una cassa. Il giorno seguente, quando Zeppa e Spinelloccio erano insieme, Spinelloccio si congedò dal Zeppa dicendogli che doveva andare da un amico, e così detto se ne andò a casa della moglie di Zeppa. Mentre stavano in camera da letto arrivò il Zeppa e la donna, come d’accordo con il marito, lo rinchiuse in una cassa e uscì dalla camera. Il Zeppa allora fece chiamare la moglie di Spinelloccio e la portò nella camera da letto e incominciò ad accarezzarla proprio sopra la cassa dove aveva fatto rinchiudere il marito, e spiegò alla donna: “ho amato e amo Spinelloccio come fratello; e ieri (…) egli con la mia donna così si giace come con teco. Ora, per ciò che io l’amo, non intendo di voler di lui pigliare altra vendetta, se non quale è stata l’offesa: egli ha la mia donna avuta, e io intendo d’aver te (…) e oltre a questo ti donerò un così caro gioiello come niuno altro che tu n’abbi”. Dopo aver udito queste parole la donna per far cadere questa vendetta accettò il compromesso del Zeppa e con lui “si sollazzò” sopra la cassa dove stava Spinelloccio che aveva sentito le parole del Zeppa e la “danza trivigiana che sopra il capo fatta gli era”, e capì l’insegnamento che voleva dargli l’amico. Dopo aver preso piacere dalla donna, scese dalla cassa, aprì la porta per far entrare la moglie e fece aprire la cassa dalla donna di Spinelloccio dicendole “ecco il gioiello il quale io ti dono”, e ne uscì l’amico. E i due, se fino ad allora avevano avuto tutto in comune tranne le mogli, da quel momento poterono scambiarsi anche le donne: “e da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti e ciascuno di loro ebbe due mogli”.

Questa simpatica novella è un omaggio all’amicizia, al buon senso e alla ragione. Invece di farsi prendere dalla furia e dall’ira i due risolvono in maniera bonaria una situazione ambigua e traggono insegnamento dai propri errori.

Tratto da “La Toscana di Boccaccio: itinerari culturali nel paesaggio toscano attraverso il Decameron”, di A. Piras, Ledizioni, Milano, 2014.

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