Certaldo nel Decameron

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Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Val d’Elsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.

Certaldo è ambientata la famosa novella VI,10, raccontata da Dioneo sotto il regno di Elissa. Frate Cipolla, appartenente ai frati di Sant’Antonio, ogni anno andava a chiedere l’elemosina agli abitanti di Certaldo. Boccaccio ambienta la novella in una località definita e da lui ben conosciuta, infatti qui avevano i natali i suoi parenti.

Il Castello di Certaldo, oggi chiamato Certaldo Alto, è la parte alta del borgo, dove si elevava il castello e dove era ed è il Palazzo Comunale. Era difeso da una cinta muraria sulla quale si aprivano le porte per accedere al paese, Porta Alberti, Porta al Sole e Porta al Rivellino. Nella valle sottostante passava la Via Francigena. Ancora oggi il Castello si presenta come un borgo fortificato arroccato sul colle, costruito in mattoni rosa che contribuiscono a creare un’atmosfera magica. La nascita del Castello fu favorito dalla via Francigena e dai terreni fertili evocati nel Decameron mettendo in evidenza qualità e ricchezza dei prodotti della terra. Boccaccio specifica che “quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana” e chiama il protagonista della novella “Frate Cipolla” rendendo la cipolla, prodotto della natura e simbolo dell’identità cittadina, un personaggio indimenticato della nostra letteratura. La cipolla è presente anche nello stemma del paese sin dal XII secolo, quando era feudo dei Conti Alberti. Tale stemma era formato da uno scudo bipartito bianco e rosso, con la cipolla sulla parte bianca, recava il motto “Per natura sono forte e dolce ancora / e piaccio a chi sta e a chi lavora”. Boccaccio annotò “Nondum certaldenses erant” in una copia del Naturalis historia di Plinio (ciò conferma la conoscenza e lo studio verso le opere di questo autore), quando si parla dei vari tipi di cipolle, e nel Corbaccio si fa prendere in giro da una vedova che gli dice “Torni a sarchiar le cipolle e lasci star le gentildonne!” (G. Boccaccio, Corbaccio, Edizione Amoretti, Parma, 1800, p. 90).

Anche nella descrizione del Frate “di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso” si richiamano i caratteri fisici della pianta erbacea. Boccaccio continua dicendo “e il miglior brigante del mondo (…) sì ottimo parlatore e pronto era, (…) e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente”, e grazie alla sua arte oratoria abilmente cercava di convincere i suoi concittadini che aveva la penna dell’angelo Gabriele.

Frate Cipolla era parente o amico di tutti quelli che abitavano in quella contrada, e come ogni anno, nel mese d’agosto, raccoglieva elemosine in nome di Sant’Antonio,e nel chiederle mostrava oggetti appartenenti ai santi che dovevano rinforzare la fede. E così una domenica mattina d’agosto quando gli uomini e le donne erano ritornati dalla campagna per recarsi alla messa nella canonica chiese loro “del vostro grano e delle vostre biade (…) secondo il podere e la divozion sua” in modo che il Santo potesse proteggere buoi, pecore, asini e maiali.

La chiesa cui si riferisce è la chiesa dei SS. Tommaso e Prospero che si trova nella parte medioevale di Certaldo. È la chiesa più antica del Castello e risale al XIII secolo circa. Nelle terre di Certaldo si coltivavano, oltre alle cipolle, anche grano e biade, e si allevavano animali come buoi, pecore, asini e maiali. Si offrivano donazioni a San’Antonio per avere ottimi raccolti testimoniando l’importanza dei campi e dei prodotti della terra. In questa novella uomini e donne lavoravano anche la domenica mattina presto e solo all’ora della messa facevano festa. Nei piccoli borghi toscani, legati alle attività della terra, non vi erano le ordinanze presenti a Firenze che imponevano il riposo durante i giorni festivi, (come nella modernità).

La novella narra che due giovani chiamati Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini, (si tratta di cognomi di famiglie allora esistenti a Certaldo, come rammenta Vittore Branca), dopo aver sentito l’omelia in chiesa, decisero di burlarsi di lui, e mentre il frate, la mattina, dopo aver recitato l’omelia, mangiava “nel castello”, scesero “alla strada”, si recarono nell’ albergo dove il frate era alloggiato, e sostituirono la penna dell’angelo Gabriele con dei carboni.

Non si specifica quale osteria fosse, ma sicuramente ve ne erano di diverse. Frate Cipolla si fermò a mangiare nel Castello di Certaldo e si riposò proprio là senza ritornare all’albergo: vi è una separazione delle funzioni, al piano terra l’osteria per mangiare e ai piani superiori le camere per dormire.

Probabilmente la “strada”di cui si parla, che collega la parte alta di Certaldo con l’albergo dove era alloggiato Frate Cipolla, era la via Francigena che a partire dal VII secolo passerà ai piedi della collina del Casello, il vecchio centro storico in posizione sopraelevata rispetto alla parte moderna del paese. Certaldo, come altri Comuni, si forma e cresce grazie all’impulso della vicina Via Francigena. È documentata l’attività di due ospedali e diversi alberghi lungo tale via: infatti vi erano luoghi di riposo per i pellegrini diretti a Roma ma anche per tutti gli altri viandanti.

In questa stessa novella vi è il riferimento al Calderon d’Altopascio (che troviamo nel I° itinerario), e quindi si evidenzia l’importanza dei due centri nella strada per Roma. 

Viene inoltre scandita la quotidianità della domenica: il lavoro, la messa, il pranzo, il riposo, l’incontro in piazza. Si tratta di una vita semplice ma con un ritmo che accompagna anche i tempi dell’uomo: la mattina presto il lavoro, durante le ore più calde il pranzo e il riposo, e la sera con il fresco lo svago.

Uomini e donne durante la messa sentirono Frate Cipolla che diceva di avere la penna dell’angelo Gabriele e dopo la nona, ossia da mezzogiorno al primo pomeriggio (nel Trecento il giorno veniva diviso anziché in ventiquattro ore in dodici – terza, sesta, nona, e vespro), finita la messa, ritornarono a casa e dopo aver mangiato si recarono verso il castello per vedere il miracolo con la penna del santi. Il Frate dopo aver mangiato e dormito, mandò a dire al suo servitore Guccio Imbratta, che avrebbe dovuto custodire con cura la penna, di suonare le campanelle, (come abitudine per l’esposizione delle reliquie), e di portare in chiesa le bisacce con la penna e gli altri oggetti necessari per la predica. Guccio arrivato sulla porta della chiesa cominciò a suonare le campanelle e a questo suono Frate Cipolla iniziò la predica e portò fuori la cassetta. Dopo averla aperta vide i carboni e con un gesto teatrale alzò le mani a Dio e lo ringraziò per la sua potenza: nonostante la penna fosse scomparsa Fra Cipolla con fantasia e grande inventiva, fece credere ai suoi compaesani che al posto della penna dell’angelo Gabriele vi erano i carboni che bruciarono San Lorenzo. Il frate fece credere che lo scambio era avvenuto per volontà di Dio visto che “la festa di San Lorenzo sia di qui a due dì”. L’episodio avviene nel giorno 8 agosto, e oltre l’identificazione geografica (Certaldo, la chiesa, l’osteria) è presente anche quella temporale.

Dopo questa scena tutti ricoprirono il prete di grandi offerte e Frate Cipolla con i carboni alle mani fece grandi croci su farsetti e veli delle persone come segno di benedizione. Dopo aver disegnato croci su tutti i certaldesi, i due giovani, divertiti dalla situazione e dalla capacità del Frate di trovare rimedio alla situazione, dopo che tutti se ne furono andati si avvicinarono gli restituirono la penna rubata e la utilizzò l’anno seguente portandogli non meno denari dei carboni.

Le osservazioni su farsetti e veli, sfoggiati anche a Certaldo, ribadiscono l’abilità degli artigiani dei paesi toscani. Boccaccio evidenzia che “in quella contrada” quindi a Certaldo, ancora non erano conosciuti i lussi orientali che chiama le “morbidezze d’Egitto”, che invece erano note in città come Firenze o Siena: “se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate”.

Tratto da “La Toscana di Boccaccio: itinerari culturali nel paesaggio toscano attraverso il Decameron”, di A. Piras, Ledizioni, Milano, 2014, pp. 137-142.

 

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